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Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto:

— Tu non mangi?... Cos’hai?

Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato.

— Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia!

Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di cominciare, poi disse: — Benedicite a vossignoria!

Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente ricca, e degli occhi castagni, al pari dei capelli, timidi e dolci: de’ begli occhi di cane carezzevoli e pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch’esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l’arsura del solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore delle notti stanche — gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto, alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scarne: delle povere mani pel suo duro mestiere!...