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pravvisse il nome solo, fors’anche più d’uno ne ho ignorato. Ad ogni modo, in quell’epoca di sì scarsi studi militari, tutta Europa riunita non ne fornì altrettanti.

Al testo apposi quelle note che mi parvero opportune: sono di lingua, di confronto di codici, di autori citati da Francesco o da me, e di brevi digressioni ove mi parve ve ne fosse mestieri.

Gli architetti che leggeranno quest’autore s’ingegnino di rispettare ed imitare la modestia sua, il suo amore per l’arte, pensando che in quei buoni quattrocentisti che fecero quasi sempre bene, spesso ottimamente, e talvolta a segno di lasciar disperati di avvicinarli chi venisse lor dopo, la potenza del fare vinceva d’assai quella del dire. Ora è sorta la generazione de’ sofisti dell’arte, dico degli estetici, che con gonfie parole e tra nebbie metafisiche vanno assegnando alle mirabili opere de’ nostri antichi motivi de’ quali essi pur non s’addavano: parlano con gran sicurezza, e poco sperti nell’arte, poichè non vi si addentrarono mai, non intesi essi stessi dagli artisti, procedono con artificiata passione a declamare canoni del bello, cui la pratica troppo soventi smentisce come impossibili. Costoro vi troveranno proprio il perchè Giotto, Raffaello, Michelangelo abbiano fatta questa e quest’altra cosa, ed in verità, che quando vi penso, mi rammentano i gramatici del quarto e quinto secolo ed i nostri chiosatori del secento, che notavano ne’ sommi poeti a bellezza il buio, l’arcano, le allusioni che credevano scorgervi per entro. Gran segno di decadimento è questo: che, quando al bello vien fatta una gretta ana-