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la ragione; quando la legge si è rivelata alla coscienza, il suo adempimento non dipende più da alcuna circostanza esteriore. Perciò la volontà morale realizza il suo fine appena posta: essa ci introduce in un mondo di interiorità pura, rispetto al quale tutte le grandezze materiali si risolvono in un’apparenza indifferente. Soltanto per questo la legge morale può essere veramente universale: perchè seguirla è sempre in potere di ciascuno e da questo punto di vista volere è veramente potere (pr. V. 62-63).


23. La filosofia di Kant acquista così, come rettamente è stato avvertito1, un carattere metafisico religioso e si accosta al platonismo. L’uomo appartiene a due mondi, al sensibile ed all’intelligibile: la vita sensibile non è che la parvenza della vita intelligibile, che è la vita vera e più alta, ma nella condizione umana, inaccessibile alla conoscenza: appartenere a questa vita soprasensibile già nel seno dell’esistenza sensibile, far convergere verso di essa le tendenze sensibili — ecco la vera moralità. Certo noi non possiamo apprendere nulla di più intorno all’intelligibile; perciò appunto non possiamo dare un contenuto materiale alla legge ed all’ordine morale. Ma la ragione non solo ci conduce, almeno negativamente, nella conoscenza alla posizione dell’intelligibile; ma ci permette anche di rappresentarci in qualche modo l’intelligibile nel sensibile, di dare alla forma intelligibile una materia sensibile in modo da raffigurare simbolicamente lo stesso ordine intelligibile. Accanto alla conoscenza vera e propria essa suscita in noi la fede filosofica che è la facoltà di presentire e raffigurare con piena coscienza negli ordini medesimi della conoscenza empirica, senza turbarli, l’ordine superiore della realtà morale. Il merito essenziale di Kant è appunto in questo: nell’avere posto il centro di gravità della morale nel trascendente senza aver bisogno per questo di affidarsi a dubbie e pericolose speculazioni trascendenti. Egli ci preserva così tanto dall’empirismo, che non vede come la realtà data, lungi dal costituire l’essere unico e definitivo, non abbia altro



  1. Paulsen, o. p., 328; Vidari, Il moralismo di Kant, Riv. Filos. 1906, 501.»