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ss., 33, 58, 63 ss.). A ciò si è giustamente osservato che anche nell’attività sensibile noi non tendiamo mai realmente al piacere: l’attività mira essenzialmente alla soddisfazione di bisogni, di tendenze ed il piacere non è il fine, ma il concomitante dell’attività che raggiunge il suo fine1. Ma in fondo questo non colpisce il punto essenziale dell’argomentazione kantiana: con la quale Kant ha voluto in sostanza dire che, dato come fine supremo un oggetto distinto dalla mia volontà razionale, il rapporto tra questo fine e la mia volontà non può mai essere una necessità razionale; è sempre una tendenza, un interesse, una soggezione arbitraria, in quanto, anche se apparentemente diretta verso un fine soprasensibile, non è infine giustificabile che per mezzo di un’inclinazione e quindi costituisce sempre un interesse patologico. In altre parole da ciò che è non si potrà dedurre mai ciò che deve essere; la nostra volontà razionale non può avere un oggetto ad essa esteriore, perchè l’oggetto suo vero trascende la conoscenza e perciò ogni volta che le si pone un oggetto, le si propone in realtà un oggetto della volontà sensibile e si trasforma l’imperativo incondizionato del dovere in un consiglio di saggezza pratica.


22. Il carattere trascendente del fine dell’attività morale ci spiega per ultimo l’indifferenza della volontà morale in rapporto ai risultati materiali delle nostre azioni (Grundl. 394). Se la forma inizia una realtà superiore, un ordine intelligibile che si realizza già nella stessa nostra volontà morale, che cosa importa ancora il lato esteriore delle nostre azioni, la nostra vita sensibile? Certamente, data la natura dell’essere nostro, la possibilità della vita morale presuppone la presenza di tendenze sensibili; anche Kant riconosce che le condizioni empiriche possono aver valore per la preparazione della vita morale (pr. V. 152). Di più conviene ricordare che la perfezione morale non è la conquista d’un momento: essa non è un atto unico, ma la creazione progressiva d’un mondo, la quale si dispiega dinanzi a noi come un compito infinito (pr. V. 32-33, 122 ss.). Ma la possibilità della partecipazione alla vita morale è già data con



  1. Cresson, La morale de Kant, 141, ss.