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cata la domanda che muove al suo Dio il profeta ebraico: perchè l’innocente è oppresso e l’iniquità trionfa? È vero che un superficiale ottimismo pone dinanzi a noi l’età dell’oro in un avvenire più o meno remoto: l’esperienza del passato ci mostra troppo bene come dobbiamo pensare l’avvenire. E dato pure che questo futuro regno della giustizia fosse possibile, distruggerebbe esso tutto il passato di ingiustizie e di dolori che pure, per una delicata coscienza morale, non deve essere meno tormentoso del presente? L’impulso morale dell’uomo non potrà quindi sperare mai di vedere realizzato quandochessia il suo ideale. Ciò riconosce del resto anche la coscienza religiosa volgare, per cui l’ordine morale è inseparabile dal concetto d’una esistenza oltremondana; il che vuol dire che la vita morale non può avere per sè stessa un valore assoluto, ma riceve il suo compimento e la sua ragion d’essere da un ordine soprasensibile, che diventa direttamente accessibile soltanto nell’esperienza religiosa.
Ed alle stesse riflessioni ci conduce la considerazione di tutte le altre forme positive della cultura, che si suole proporre all’uomo come un campo d’un progresso indefinito, d’un’esplicazione indefinita della sua attività. Che cosa significano tutte queste parole di progresso, di evoluzione spirituale indefinita, se non se ne precisa chiaramente il fine? E se si pone questo fine nello sviluppo illimitato delle facoltà superiori, sorge spontanea la domanda: a che giova? Nessuna di queste attività che pure possono, nessuno lo nega, costituire per l’individuo un nobile fine della vita, costituisce, quando venga considerata nella sua totalità sub specie aeternitatis, un tutto avente in sè la sua ragione ed il suo fine, in modo che l’ uomo debba in esso riconoscere il valore definitivo e supremo. La stessa attività del pensiero, che pure è sorgente allo spirito dell’uomo di tante gioie e di tanto legittimo orgoglio, non presenta allo spirito umano, quando profondamente sii pensi, alcuna soddisfazione definitiva. Colui che abbraccia al di là della piccola isola del sapere umano il mare infinito di ciò che non sappiamo e non sapremo mai — quel mare per cui non abbiamo nè barca, nè vela — come potrà non ripetere in sè l’amaro lamento del dottor Fausto:
E vedo solo che non possiamo saper nulla!
Anche qui del resto ciò che più rende impossibile un appa-