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versi morali e sacri | 377 |
xviii
alla carne
Schivo di vaneggiar, fuggo lontano,
meretrice impudica, i tuoi diletti,
e ’l manto grave de’ lascivi affetti,
qual fe’ l’ebreo garzon, ti lascio in mano.
Invan co’ vezzi, temeraria, invano,
s’altro non dái che duol, gioia prometti;
Circe crudel, che lusingando alletti,
indi in mostro trasformi il senso umano.
Lessi che giá con simulato viso
porse a mal cauto re donna omicida
latte soave, ond’ei fu poscia anciso.
Or te vegg’io che, dolcemente infida,
domestica nemica e sotto riso,
l’anima inebri sol perché l’ancida.
xix
cupio dissolvi et esse cum christo
Peregrino usignuol, s’avien che sia
chiuso colá fra prigionieri augelli,
e di gran rege in ricchi alberghi e belli
pargoletto cantor viva in balía;
quantunque amica mano ésca gli dia
e gli prestin ricetto aurei cancelli,
rivagheggiando il patrio ciel fra quelli,
sospira pur la libertá natia.
E cosí, benché ’l senso l’accarezzi,
duolsi, Signor, del carcer suo terreno
l’alma nodrita infra lusinghe e vezzi;
né requie avrá fin che ’l tenace freno
del ritegno mortal Morte non spezzi,
ond’apra l’ali a rivolarti in seno.