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292 parte sesta

xix

speranza di prosperitá

dopo il travaglio.

     Dir ben poss’io (se non m’inganna il vero,
se la speme o ’l veder non è fallace):
riede il bel tempo e la tempesta ha pace,
e giá cessa del mar l’orgoglio altero.
     Sorga meco omai lieto ogni nocchiero
la santa a salutar mirabil face,
del vicino seren nunzia verace,
ond’io morte non temo e porto spero.
     Eccola in su l’antenna, ecco la proda
precorre un’aurea imago; ecco un delfino,
che fende il mar con l’argentata coda.
     Glauco vegg’io, che a l’impeto marino
sottrae le vele, e di sua man le snoda:
destri presagi al mio sdruscito pino.


xx

a iola

(Giulio Cesare Caria)
mentre dimora in solitudine a Pietramelara.

     Tu lá soletto, ove le querce e gli olmi
l’ombra han piú folta, o fortunato Iola,
tra ’l rio che corre e l’augellin che vola,
di riposo e piacer l’anima colmi.
     Ben di te mi rimembra e di me duolmi,
cui duro freno ai verdi boschi invola,
lasso! e ’l pensar di te sol mi consola,
qualor gravoso affanno opprimer suolmi.
     Giá vederti m’aviso appo la mandra,
or a suon di sampogna ed or di flauto,
fuggitiva chiamar Clori e Leandra.
     Ed or timida damma, or cervo incauto
di tua man preso, or tordo ed or calandra,
de la tua mensa è ricco cibo e lauto.