Deh, come volentier commune avrei
fatta teco a’ miei passi infermi e lenti
la mèta, ove ’l mortal corso si serra!
Dunque (e com’esser può?) giá secca a terra
cade la pianta e riman verde il frutto?
dunque, lá dove vedovo ed asciutto
giá d’onor, giá d’umor vedesi il fonte,
ancor sonante, ancor lucente e vivo,
abonda d’acqua il rivo?
dunque, fia ch’a l’occaso il sol tramonte
e ch’un de’ raggi suoi splenda senz’esso?
Fèro tenor di stella, ingiusta legge
di quella rea, che legge unqua non serba!
Ben potea, ben devea Morte superba
sottrarmi al duol, che ’n vita ancor mi regge;
e ben devea poterlo il duolo stesso,
ond’io fui tanto allor vinto ed oppresso:
ma non vòlse la rigida orgogliosa
esser in un sol giorno a duo pietosa.
Altro da indi in poi cibo e sostegno,
che pianto e doglia e cura acerba e grave,
la mia misera mai vita non ebbe;
né meraviglia è giá, se ’l triste ingegno
pace non trova e ’l cor posa non have,
da che sí forte il mio tormento crebbe.
Meraviglia piú tosto esser devrebbe
com’io non squarci il mio terrestre velo,
e sia sí pigro a seguitarti in cielo.
Che tardi, o degli afflitti empio conforto?
Deh torna, o Morte, o Morte ingorda e ria!
Ma, se egli è ver che sia
d’ogni umana fatica ultimo porto,
perché Morte chiam’io, folle, in aita,
ch’accorci o tronchi i miei noiosi stami?
perché, lasso! ai martír termine cheggio?
Morte, dunque, al mio mal bramar non deggio: