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278 parte sesta

a par col genitor, lacera scorza,
pianger la genitrice il Ciel mi sforza;
né ben saldata ancor la prima piaga,
di novo colpo un novo stral m’impiaga.
Madre, tu giaci? Ahi troppo ricca spoglia,
troppo pregiata preda, empia, mi tolse
quella che te disciolse
di vita e me colmò d’eterna doglia.
Chi piú fia ch’a virtú m’alletti e mova?
chi, sí a me grave e sí da te lontano,
fra cordogli cotanti e fra perigli,
fia piú che mi consoli o mi consigli
Toltomi quel tesor ch’io piango invano,
nulla cur’io, nulla mi piace o giova,
né, se non morte sola, atta si trova
a stemprar lo mio fèl dolcezza alcuna,
quanto quaggiú rimira occhio di luna.
     So ben che, quando il tuo caduco impaccio,
madre, lasciasti, e da le chiome tue
invida mano il crin vital divelse,
al gran Fattor de’ cinque mondi in braccio
lieta n’andasti, il qual fra mille sue
alme piú care allor per sé ti scelse.
So che, felice, oltra le spire eccelse
ti spazi, e de le stelle, onde riluce
l’empireo, accresci il numero e la luce.
Ma qual contro sí súbita percossa
trovar, miser, poss’io difesa o schermo?
Come può petto infermo
rimaner saldo a sí possente scossa?
Ha ben il Cielo onde s’allegri ed orni,
ma ben ha il mondo cieco onde s’attristi,
ed io, che l’ombre sue teco non lascio.
Tu posto hai giú d’ogni fatica il fascio,
tu nel regno degli angeli salisti;
io, grave di dolor, trappasso i giorni;