de la parca proterva,
se tua son, Teseo mio,
con qual ragion poss’io,
togliendo a me la vita,
a te toglier la serva?
Cosí piangea la giovane dolente,
e ’l gran figlio di Semele e di Giove,
prendea del suo ramarico diletto.
Ed ecco allor de’ satiri la turba
con le stolte bassaridi in un coro,
e ’l buon Silen decrepito e canuto,
tinto di mosto e stupido di sonno,
con basse ciglia e tumide palpèbre,
curvo e gravoso e tremulo e cascante,
alla disdossa l’asino cavalca,
e soffia e russa e vomita sovente,
e ’n ciascun passo tituba e tracolla.
Ma le baccanti il reggono e i silvani,
che ’n strane danze rotano le membra,
ed ululando assordano la selva;
e questi vibra il pampino frondoso,
e quei brandisce l’edera ritorta,
e chi tempra la fistula selvaggia,
e chi gonfia la buccina marina,
ed altri batte il cembalo sonoro,
ed altri suona il crotalo festino;
e tra sí fatti strepiti e tumulti,
con mesto canto Libero onorando,
de l’orge sacre celebran la pompa.
Evoè,
facciam brinzi al nostro re!
Beviam tutti: io béo, tu béi,
due e tre volte, e quattro e sei.
Al ristoro de la vita
questo calice n’invita.
Questo è quel che al cor mi va;
dállo qua.