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idilli mitologici | 173 |
20
— Ah fuggi, Galatea! dietro quel colle
— Dori dicea — non vedi insidioso
starsi il terror di queste piaghe ascoso,
ch’attende il tuo passar? Deh fuggi, ahi folle! —
Ma egli, intanto, in su l’arena molle
uscito fuor dal suo ricetto ombroso
era di furto, e ’n dolce atto amoroso
stringer indarno ed abbracciar la volle.
Pur un bacio le tolse. Ella sen gío,
lasciando lui nel solitario seggio
pien di scorno, d’affanno e di desio;
che: — Poiché sí ver’ me scarsa ti veggio,
torna, — disse, — crudel, dal labro mio
prendi indietro il tuo bacio: ecco, io nol cheggio. —
21
L’aspra sampogna, il cui tenor di cento
voci risona e cento fiati spira,
battendo a terra, ebro di sdegno e d’ira,
Polifemo, ond’al ciel pose spavento:
— Poiché quest’empia, che l’altrui tormento
— dicea — lieta e ridente ascolta e mira,
sol cara ha l’armonia di chi sospira,
né gradisce altro suon ch’l mio lamento;
qui spezzata rimanti, e qui ti lagna
dal mio lato disgiunta e dal mio labro,
cara de’ miei dolor fida compagna! —
Piú non diss’egli, e ’l monte arsiccio e scabro
rimbombò d’urli, e ’l lido e la campagna
tremonne, e l’antro del tartareo fabro.