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170 | parte quarta |
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Poiché, cantando, il misero non pote
de l’empia Galatea rustico amante
con acuta sambuca il fier sembiante
placar di lei, né con selvagge note;
sparso di pianto le lanose gote
e di grossi sospir tutto fumante,
posata giú la stridula sonante,
di queste voci alfin l’aria percote:
— Dunque, fia ver che ’n questa arsiccia falda
gli occhi, novello Alfeo, distempri in fiume,
e ’n fiamma il cor, di Mongibel piú calda?
Fia dunque ver, crudel, ch’io mi consume?
lasso, ch’a’ preghi miei fugace e salda,
d’onda e di scoglio in un serbi il costume! —
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A l’ombra negra d’un’antica noce,
mentre Scilla latrando i lidi assorda,
cosí cantando Polifemo accorda
col zuffol suo la strepitosa voce:
— Poiché, piú che mai fosse aspra e feroce,
questa crudel, della mia morte ingorda,
al mio caldo pregar fassi piú sorda
e innanzi al correr mio fugge veloce;
o doloroso e sconsolato mergo,
tu, ch’odi le querele ond’io mi lagno,
e ’l pianto miri onde la guancia aspergo,
posa qui meco, e nel tuo duol compagno
m’avrai; né, men che ’l mar, torbido albergo
ti fia l’umor, di cui la terra io bagno.