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idilli pastorali 129


     Fu, se ’l ver si racconta, opra sí bella
arnese giá de la piú bella dea,
che quest’arco talor, queste quadrella,
saettando le fère, oprar solea;
ed è fama tra noi che, poscia ch’ella
pianse del bel garzon la morte rea,
con questo ancor l’ispido fianco incise
del feroce cinghial che gliel’uccise.
 
     Poi d’una in altra mano ella sen venne
in poter di Dameta, indi d’Alceo;
Alceo per essa da Menalca ottenne
quattro e quattr’agne; alfin l’ebbe Aristeo.
Questi intatta serbolla, infin ch’avenne
ch’io la vinsi cantando a Meliseo,
nel natal di Damon, l’istesso die
che fu principio a le sventure mie.

     Licida poi, che grand’invidia n’ebbe,
due cose che nel ver ben rare sono,
perché donarla a Mirzia sua vorrebbe,
m’offerse, in cambio di sí nobil dono:
d’acero un vaso in cui nessun mai bebbe,
e que’ bei flauti c’han tremante il suono.
A lui, ch’ancor n’ha sdegno, io la negai;
e tu, se ti fia in grado, in don l’avrai.
 
     Ben averla desia con caldo affetto
Crocale pastorella, e l’avrá forse.
Giá, pregandomi invan, da quel boschetto
fin su l’uscio pur ier dietro mi corse;
alfin, di scorno accesa e di dispetto,
il dito, minacciandomi, si morse.
E bella è pur, benché ’l color somigli
ella delle viole, e tu de’ gigli.

G. B. Marino, Poesie varie. 9