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118 parte terza


     Deh! quante volte, in sul mattin cogliendo
il dolce fico, che tra foglia e foglia
rugiadoso di mèl pendea piangendo,
chino la fronte e lacero la spoglia,
il diedi a te, tra me stesso dicendo:
— Cosí mi stillo in lagrimosa doglia.
Come sei tanto ingrato, idol mio caro?
Ti dono il dolce e tu mi dái l’amaro! —
 
     E quante, allor ch’entro gli alberghi cari,
sazie di violette e di ligustri,
machinavan le fabriche soavi
l’api, degli orti architettrici industri,
io, rapiti e recati i biondi favi
da l’ingegnose lor case palustri,
vòlsi inferir: — Se ben con gli occhi impiaghi,
pur ch’io ne colga il mèl, non curo gli aghi. —
 
     Spesso, tramando ancor tra gli arboscelli
o pania o rete al semplice usignuolo,
ti venni in gabbia a presentar di quelli
e d’altri prigionier querulo stuolo;
quasi esprimendo: — A par di questi augelli
spiegâro audaci i miei pensieri il volo,
né men di questi augelli ai lacci tesi
del tuo dorato crin rimaser presi. —

     Poi ti scorgea dov’albergava, unite,
tortorelle o colombe, un nido ombroso;
e parlava in me stesso: — Or voi gioite,
felice amica e fortunato sposo! —
Indi, additando la feconda vite
al suo caro appoggiato olmo frondoso:
— S’Amor gli arbori istessi insieme allaccia,
io perché fuor — dicea — de le tue braccia? —