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106 | parte seconda |
lxii
alla gelosia
Che Tizio lá nel tormentoso inferno
pasca del proprio cor l’augel vorace;
che Tantalo digiun segua lo scherno
de l’ésca avara e del ruscel fallace;
che sostegna Issione il moto eterno
de la rota volubile e fugace;
che Sisifo per gli argini d’Averno
stanchi il gran sasso senz’aver mai pace;
che Prometeo, legato in duro laccio,
paghi l’error de la rapina antica,
esposto al vento e condannato al ghiaccio;
gran pene son: ma la sua amata amica
veder giacersi ad altro amante in braccio
se sia pena maggior, chi ’l vide il dica!
lxiii
gelosia
Tarlo e lima d’amor, cura mordace
che mi rodi a tutt’ore il cor dolente,
stimolo di sospetto a l’altrui mente,
sferza de l’alme ond’io non ho mai pace,
vipera in vasel d’òr cruda e vorace,
nel piú tranquillo mar scoglio pungente,
nel piú sereno ciel nembo stridente,
tòsco tra’ fior, tra’ cibi arpia rapace,
sogno vano d’uom desto, oscuro velo
agli occhi di ragion, peste d’Averno,
che la terra aveneni e turbi il cielo,
ov’amor no, ma sol viv’odio eterno,
vanne a l’ombre d’abisso, ombra di gelo!
Ma temo non t’aborra anco l’inferno.