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séguita ancor egli il paterno esercizio del torcolo. Nel qual volume si son da me fatti finalmente tanti miglioramenti, che non n’è rimaso privo foglio alcuno né facciata né forse stanza. Il povero libro naviga in questo tempo (dico finch’io son vivo) colle vele basse, perché il rabbioso vento dell’invidia degli emoli lo tien combattuto non poco. Ma con tutto ciò, essi non possono godere appieno, turbandoli assai il sapere che ciò non è per durare in lungo, mentre veggono che il mondo ha cominciato a disingannarsi e che molti lettori al loro mal dire rispondono col romitello del Boccaccio: — Oh! son si fatte le male cose? — Addunque possiamo ragionevolmente aspettare il bene, mentre del male se n’è avuto a dovizia. Col qual fine a V. S. bacio le mani.

Di Roma, io d’agosto 1649.

CXXIII

Al signor Francesco Franchi, al Corvaro


Si scusa di non avergli ancora potuto rendere un servigio, e lo ringrazia del dono d’una lepre.

Di Roma, 25 decembre 1649.

CXXIV

Al signor principe di Castellaneta, a Napoli


È pieno d’acciacchi e malanni, il peggiore dei quali è Tesser prossimo

ai settantotto anni.

L’avermi il signor Caruso, coll’occasion della sua venuta a Roma, arrecato il prezioso favor del saluto di V. E. ha in me non giá ravvivata (ché ravvivar non si può una cosa che non è mai morta), ma certo stuzzicata la taciturna ma divota ricordanza ch’io serbo ognora del valor di lei e della sua gentilezza e degli altri suoi rarissimi pregi. Si che io non mi son potuto contenere che, dal solito mio riverir V. E. col silenzio, non sia passato a ringraziarla colle parole, si come ora faccio