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c’ha il signor Cardinal Farnese, e V. S. l’avrá veduta, la qual fu trovata nelle terme antoniane, che questa sola vai piú di tutti gli ornamenti di San Pietro. E si può credere che in quel luogo ne fossero infinite.

Quanto alla spesa, dalle sudette cose se ne può far argomento. Il tetto solo del tempio di Giove capitolino, sto per dire che valeva quanto vai tutta la chiesa di San Pietro. Era coperto, com’Ella sa, di tegole di bronzo dorate, le quali per cose preziose furono rubate e trasportate in Africa da quel re de’ vandali, come mi par d’aver letto in Procopio, e un privato le indorò, come mi par che dica Plinio di Catulo. «Tegulas Capitola aereas inauravit primus». E Seneca il vecchio, parlando di queste, se non erro: «Fastigio tis supra tectis, auro puro fulgens, praelucet Capitolium». E Plutarco, se mal non mi ricordo, nella Vita di Poplicola dice che nell’indoratura solamente di detto tempio si spesero piú di dodicimila talenti, i quali, second’il calcolo di Lipsio nel terzo De magnitudine , importano piú di sette millioni. Tralascio le cose preziose che v’erano, donate da’ cittadini e dalle provincie, colle porte d’oro, le quali furon poi rubate da Stilicone. Ma, per provar le spese degli ornamenti di quelle fabriche, basta il palagio sovradetto di Nerone, nel quale, scrive Svetonio, «cuncta auro lita, distincta gemmis unionutnque conchis erant». Il qual palagio fu fabricato due volte per l’incendio, e per la gran valuta fu nomato da lui e da Roma «la casa dell’oro»: «Quam primo ’transitoriam’ , mo.x, incendio absumptam restitutamque , ’aure am nominavit». E perché mi dimenticai di sopra, aggiungerò ancor questo alla grandezza dello spazio di detto palagio. V. S. si ricorda benissimo quella pasquinata che fu fatta contro di Nerone in quel tempo, dicendogli che Roma era ormai ristretta in una casa sola, la quale occupava non solo la cittá ma anche i paesi vicini : «Roma domus fiet», ecc. La qual iperbole è canonizata da Plinio nel trentesimosesto al capitolo quindici, se la memoria non m’inganna: «Bis vidimus Urbem totani cingi domibus principimi Cali et Neronis, et huius quidem (ne quid deesset) aurea». E certo non è iperbole molto iperbolica: perché insomma, a considerar coll’occhio il sito di detto palagio, egli occupava parte di cinque monti de’ sette, cioè del Palatino (che, secondo le parole di Svetonio, era compreso dentro, secondo me), dell’Esquilino, del Viminale, del Quirinale e ancor del Celio a man destra, per quanto io stimo necessariamente. La qual fabrica necessariamente fece rovinar infinite case di privati, con