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CXLVI

A MONSIGNOR ClAMPOLI


Lo conforta pel suo allontanamento dalla corte romana.

Per servire alla lettera di V. S. ho con molta caldezza raccomandato a monsignor di Piacenza il signor Romolo, che me l’ha resa. Del resto poi la solitudine di lei è famosa, perché sta popolata dalle grazie del suo proprio ingegno e dalle maraviglie de’ suoi discorsi. Ché però Ella dee restar molto consolata in cotesta sua lontananza dalla corte, perché, dovunque Ella si ferma, sta Ella coronata d’un coro di glorie piú belle di quelle che può dar la romana fortuna. Dio rade volte congiunse insieme fortuna e sapere; e colui a chi tocca questo secondo è sacrilego se se ne lamenta, perché porta seco piaceri e consolazioni piú care delle porpore e piú preziose de’ tesori, e quanto piú egli è maltrattato dalla fortuna tanto piú vive caparre ha seco della futura beatitudine. Ché, a dirne il vero, monsignore, questi in grembo de’ quali traboccano le venture a torrenti non so con quale spirito spicchino lo spirito da questa terra, né so quale speranza gli lusinghi di posseder due paradisi. Per comprare i possessi di quel celeste, bisogna portar colá sú prezzo di lacrime, di persecuzioni, di travagli e di stenti. Ma a chi scrivo io queste cose? A monsignor Ciampoli, che sa nobilitarle con le parole, significarle coi pensieri e pratticarle coi costumi. Scusimi V. S. che, come io fui sempre a parte di tutti gli accidenti suoi con un tenerissimo e divotissimo affetto, cosi, avendo fatta intorno a loro piú d’una volta la dovuta riflessione, non ho potuto con la bella occasione della sua lettera passarmela senza questi due svisceratissimi tocchi. V. S. mi conservi la sua grazia, ché io con parzialissimo spirito la riverisco.

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