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Fate riflesso col vostro elevato ingegno sovra si fatti costumi, che poi, se vi contristarete alla ingiustizia del demerito, so certo che restarete consolato alla giustizia del castigo e benedirete quella divina mano che n’aperse una scuola da voi si felicemente osservata, nella quale si mira punita la perfidia, calcata la inumanitá, dissipati gl’interessi, còlte al laccio le calunnie e disonorati gli onori del mondo.

Quivi si vede il perfidissimo regno d’ Amore tutto sconvolto in meritate tragedie, perché quivi si mira mortificato il fasto d’una superba bellezza, terminato il corso d’una sfrenata gioventú, condannate agli orrori dei sepolcri le glorie di Venere, giustiziate le grazie che uccidevano i cuori, fioriti di carboni i bellissimi giardini di Cipro. Quivi inoltre ho veduto derisi gli oracoli degl’Ippocrati, roversciate le profonditá dei Galeni e schernite le providenze dei Mitridati. Quivi finalmente s’impara che non hanno o le minóre o le selve o gli animali riparo che arresti il corso alla giustizia del Punitore.

Fra tante perdite veggio che voi nella vostra lettera deplorate quella de’ vostri amici. Qui non voglio dirvi altro se non che siete troppo modesto, perché, chiudendo in voi tante perfezioni, e naturali e morali e teologiche, voi solo siete a voi stesso sufficiente teatro per trattenervi e per consolarvi.

In un’altra parte della vostra lettera voi dite che, quantunque siate piú giovane di me, siete però stato piú di me essercitato dalla fortuna. Dio sa, signor Mascardi, quanto a questa ultima parte come sta il fatto. Vero è che, se vogliamo trattarla conforme alla veritá teologica, non v’è fortuna, ma tutta è previdenza di lá su, dalla quale io sono sempre stato piú favorito che non merito. E se bene io non ebbi in sorte di respirare sotto il bel cielo di Roma aure favorite, io so però o che noi meritai o l’eterna sapienza cosi giudicò per lo meglio. Che però non solo non maledissi quella mano che mi allontanò da cotesti colli, ma piú tosto la benedissi, come mossa da quel Motore che muovendo non può errare; e s’ella, mossa o movendo, avesse mancato all’eterna regola (ch’io noi dico), fu questa ancora providenza permissiva, alla quale m’inchinai mai sempre.