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proporzionati ; abbia pur imparato che la metafora non si dee trarre da luogo né troppo lontano né troppo umile né troppo sublime, per non cader nell ’oscuritá, nella bassezza ed in quella che chiamano i moderni «affettazione» (che «cacozelia» chiamarono i greci) : certamente, con tutta questa sua erudizione, fará egli però sul fatto meschina prova, sempre che, come abbiam detto, non avrá quell’acutezza di giudicio e d’ingegno che Aristotile chiama «solerzia», la quale quello a lui mostri di somigliante, che tra cose molto tra sé diferenti e lontane possa considerarsi. E se, dall’altra parte, non sará si discreto che ne misuri la distanza e ’l decoro, con quel riguardo che lá nel terzo dell’ Oratore vien ricordato da Crasso, lascerá correre senza ritegno e vergogna questa figura, dove dee comparire cosi modesta che paia che altri nell’altrui sede quasi per mano l’abbia condotta, non che se l’abbia ella violentemente usurpata. Onde, come nota il padre della latina eloquenza, dirá poi egli «Sirti del patrimonio» e «Cariddi delle sostanze», dove «scoglio» piú tosto e «voragine» dovrebbe dirsi; chiamerá l’altrui voracitá «tempesta del convitto», le biade «convitto della tempesta» appellando; dirá le nevi ‘de’ monti «sputi di Giove», e la republica per la morte di Scipione «castrata»; e mille altri nuovi e diversi trasporti di questa guisa gli usciranno dalla penna, che non parti ma sconciature e aborti di lubrico e deboi giudicio, con deriso piú tosto che con lode, saran giudicati.

Ma se non basta il testimonio sopracitato di due si famosi maestri dell’arte, per mostrar che il por mano a’ traslati non è cosi agevole come da molti per avventura è creduto, aggiungiamoci l’autoritá di quel Demetrio il falereo, che fu si gran successore ad Aristotile e Teofrasto; e diciamo che, avendo anch’egli questo pericolo conosciuto, e ricordando che per fuggir ogni scoglio è assai sicuro partito il convertir la metafora nella imagine o comparazione che vogliam dire, conchiude che Platone, quel Platone nelle cui labra fecero Papi i suoi favi, per l’uso frequente delle metafore è sempre in pericolo di cadere; lá dove Senofonte, perché delle comparazioni piú volontieri si serve, sta piú sicuro. «Quare Plato — dic’egli — quiddam in