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CXVII

Al medesimo

Apologia del «marinismo».


Ho ricevute e di giá ancora lette le Rime del Vannetti, inviatemi da V. S. a nome del signor Scipion Rosa; del qual libretto ringrazio ambedue, l’uno come mezano e l’altro come donatore. Le ho lette, dico, due volte, né ci trovo in quanto a me quelle ridicole esorbitanze eh ’Ella costi mi significava a bocca; per lo che mi mise curiosa volontá di vederlo ed insieme sicura speranza di sollazzarmi. Ben è vero ch’egli è ardito nei traslati, ma, come dite voi altri critici, felicemente ardito, la qual felicitá è maggior di gran lunga che quella del Sissa e del Rinaldi, i quali altre volte io vidi, se bene il primo manoscritto e ’l secondo stampato.

Questo appunto è il modo del poetare che piace oggidí al secol vivente, si come quello che falsamente titilla l’orecchie dei lettori colla bizarria della novitá, tutto che alquanto pericoloso; e questo è parimente lo stile, ch’ io non niego essere secondo il mio naturai genio ed a me altretanto aggradire quanto a V. S. dá noia. Vuoisi egli, signor Tomaso mio, se non lodar come buono almeno tolerar come fortunato, condonando qualche cosa all’universal gusto del mondo, il quale è oggimai stuffo di cantilene secche e non intende di approvare il muffo rito delle calze a brache. Se a V. S. pare che quel che s’usa adesso nella poesia sia tristo e quel che s’usò in altre etá sia buono, e se di piú come lo crede in teorica cosí l’esercita in pratica, gran torto le ha fatto la natura a farla nascere a’ nostri giorni e non piú tosto a tempo antico, dov’avrebbe avuto dalla sua parte e Dante e Petrarca e fra Guittone e tutta l’altra genia. Gran straniezza è, al parer mio, il volersi mirar dietro alle chiappe come faceva Giano, e riprender poi uno che si miri dinanzi come fanno coloro che orinano. Ora insomma chi vuol piacere a’ morti che non sentono, piacciasi. Io per me vo’ piacere ai vivi che sentono. E se V. S. con un suo madriale, che è tra le Rime . giá biasimò nelle scritture del Lipsio questa malenconica