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che concerne le varianti, confermate le considerazioni già fatte, in generale; con, in più, che quasi tutti i non molti casi di lezione divergente si lasciano ricondurre a uno scrupolo moralistico tanto goffo da riuscire squisito. Già in occasione della stampa veneziana della Galeria, Marino (già sicuro in partenza che l’Inquisitore non avrebbe lasciato passare «una quantità di cose burlesche» [lett. n. 125]) aveva dovuto lamentare che al posto di un «a san Francesco» gli avessero — «senza alcun proposito» — sostituito uno «zingaresco» [lett. n. 132]. Non potremo dunque meravigliarci di quella eroica pruderie che si contempla al XVI canto dell’Adone, nella stampa veneziana, laddove è descritto (stanze 24-34) il tempio di Venere. Nell’originale, è un caso di letteratissima mistione di sacro e profano, un divertimento da goliardi, con la sua brava autorizzazione (come segnalò a suo tempo il Gaspary) in Clément Marot e, a ritroso, nel Roman de la Rose.


De’ Martiri d’Amor le vite e i gesti


recita P (25, 4); ma V: «de’ Guerrieri...».


Cantati salmi d’amor Donne e Donzelle


(34, 5); ma V: «versi d’Amor».

E scompare l’allusione (34, 6) non già nascoste da gelose grate, come in un monastero, sostituita da un divagante «che vago aspetto insieme e voci han grate»; tanto più che, di quegli orti, certo già cura di Masetto da Lamporecchio, «Priapo ortolan» tiene la chiave. E all’ottava seguente (34, 5-8) vedilo, il memorando canone:


Vestir ignudi, ristorar mendici,
affamati cibar vicini a morte,
albergar peregrini a tutte l’ore,
queste son le limosine d’Amore.


come si snerva e corregge:


Così la lor pietade usa i mendici
ristorar e cibar vicini a morte:
queste le grazie son, ch’a tutte l’ore
comparte lor la cortesia d’Amore.