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271.Sovente il crin solleva, erge la testa,
e picchia il suol con la ferrata zampa,
calca nel corso l’erba, e non la pesta,
preme col piè l’arena, e non la stampa.
Soffia borfando, e ’n quella parte e ’n questa
sempre si volge, e d’alto incendio avampa.
Chiude, né trova al suo furor mai loco,
sotto il cener del manto alma di foco.

272.Contan che de l’Arabica pendice
mentre pascea l’armento in riva a Tacque,
pien di quella incostanza, imitatrice
del mar vicino, in su gli scogli nacque.
Nettun primier domollo, anzi si dice
che talor di montarlo ei si compiacque.
Quel veloce il portava, e vie piú lenti
ne venian dietro ad emularlo i venti.

273.Pungendo ei dunque a quel destrier la pancia,
è sí rapace e violento il moto
ch’agio non ha d’arrestar pur la lancia:
perde l’incontro, e fa l’arringo ir vóto.
Onde infiammato di rossor la guancia
per error sí notabile e sí noto,
ritorna a spron battuto e briglia sciolta
a serrarlo nel corso un’altra volta.

274.Vana ancora è la botta, ed è tra via
dal soverchio furor dispersa e guasta,
che pria che giunto a la Sortice ei sia,
per se stessa in andar si rompe Tasta.
— Ancor tu contro me Fortuna ria —
disse — congiuri? Amor solo non basta?
Venga il mio Farfallino! — e dai sergenti
gli fu innanzi recato ai primi accenti.