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67.La notte tenebrosa, il ciel turbato
si rischiarava de’ begli occhi al lume.
Il vago piede imporporava il prato,
la bianca mano innargentava il fiume.
Qualor liev’aura con soave fiato
confondendogli il crin, scotea le piume,
parea sparso su ’I collo il bel tesoro
sovra un colle d’avorio un bosco d’oro.

68.* Che veggio oimè» diss’io quando ferito
fui pria da lo splendor del chiaro raggio,
«chi è costui? di qual contrada uscito?
deh qual seme il produsse? o qual legnaggio?
Non giá, ben che tra selve ei sia nutrito,
di Ninfa il partorí ventre selvaggio.
No no, non nacque mai nel terren nostro
de la schiatta de’ Fauni un si bel mostro.

69.Esser non può giá mai che beltá tanta
di cosí roza origine proceda.
Mercurio è certo a la sembianza santa,
o piú tosto Himeneo, quant’io mi creda.
Ma dove son de l’una e l’altra pianta
i pennuti talari? ov’è la teda?
Poi c’ha il crin d’oro, esser dee forse Apollo
senza faretra e senza cetra al collo.

70.O se ’l giudicio mio non è fallace,
se non m’ingannan le fattezze rare,
sará, ben che non porti arco né face,
il figlio di colei che nacque in mare.
Ma scusimi la Dea, sia con sua pace,
io dirò ch’impossibile mi pare,
che membra sí gentili e sí leggiadre
deggian Marte o Vulcano aver per padre.

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