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219.Che fia di me, ch’i miei per sempre ho chiusi,
se da te tanta grazia or non impetro?
Romperò l’armi mie, se ciò ricusi,
a piè di questo tragico feretro;
se ben son giá tutti i miei strali ottusi,
e l’arco, ch’era d’òr, fatto è di vetro,
de la face l’ardor gela e s’ammorza,
ed io col pianger tuo perdo ogni forza.

220.Lasso, si strugge il Ciel, langue Natura,
e vien quasi a mancar la stirpe nostra.
Non vedi Febo, che di nube oscura
vela la fronte, e pallido si mostra?
Sviene ogni fiore, e secca ogni verdura
per questa giá sí lieta erbosa chiostra,
poi che Favonio, che scherzar vi suole,
per altri fiati respirar non vòle.

221.I dolenti augelletti o muti tutti
taccion tra’ rami, o fanno amari versi.
Mira le tue Colombe a tanti lutti
com’hanno i baci lor rotti e dispersi.
Mira ne la tua cuna i salsi flutti,
che par fremendo ancor voglian dolersi;
e le belle unioni a te si care
divengon per dolor lagrime amare.

222.Senza quella beltá, che sol mi porse
vita, e vigore, anch’io morir mi sento.
Ben potrebbe il destin punirti forse,
che chi nacque di te, per te sia spento.
Del pianto, che fin qui tropp’oltre corse,
qualche parte risparmia, e del tormento,
per serbarmi la vita a miglior sorte,
o per pianger la mia con l’altrui morte.