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LA MORTE

— Or qual ti mena a volontaria doglia,
fanciullo incauto, o tua sciocchezza, o sorte?
De l’aspro teschio e de l’irsuta spoglia

non fia giá mai, che ’l bel trofeo riporte.
Cangia deh cangia l’ostinata voglia,
fuggi deh fuggi la vicina morte!

D’aver uccisa una vii Fera il vanto
picciol premio fia troppo a rischio tanto. —

Parea queste parole, ed altre assai
dicesser l’erbe a lui dintorno e i fiori,
che trar virtú da’ suoi sereni rai
soleano, e da’ suoi fiati aver gli odori.

— Ritorna indietro o folle, ove ne vai? —
da lunge gli dicean Ninfe e Pastori.

— Ah torci il piè da lo spietato stagno! —
gridava Clizio, il suo fedel compagno.

— Fuggi, Adon, fuggi oimè (non esser sordo
al mio caldo pregar) la Fera orrenda!

Di Venere i ricordi io ti ricordo,

non voler che te pianga, e me riprenda.

Non far, che di fierezza un mostro ingordo
un mostro di beltá strugga ed offenda.

Che tu vada a cercar tanto periglio

(mi perdoni il tuo Genio) io non consiglio. —

Ei nulla intende, e nulla cura, e dritto
colá sen va dove l’audacia il guida.

Cápita al fatai loco, ov’ha prescritto
il fine al viver suo stella omicida,
dove il ministro del mortai delitto
per córre il fior d’ogni beltá s’annida,
infausta, infame, ed infelice selva,
che dá ricetto a l’arrabbiata belva.