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11.Còlsela quando incontro a Citherea
d’ale un lieve sdegnetto era ancor calda,
e ’n tempo a punto ch’asciugata avea
piú d’una tazza del licor che scalda.
Menovvi un mostro suo la Fata rea,
contro cui non restò fede mai salda.
Cosí la vinse, e non trovò ritegno
ad esseguire il suo crudel disegno.

12.L’Interesse vi venne, e con l’uncino
trasse l’avida Ninfa a la sua rete.
O fame infame del metallo fino,
o sacra troppo ed essecrabil sete,
che non mai satollarti hai per destino,
ch’ognor quanto piú bevi hai men quiete,
a che non sforzi tu gli umani petti,
signoreggiati da’ tiranni affetti?

13.Carca d’oro la mano, e d’ira il seno,
d’ira, che chiusa piú, vie piú sfavilla,
cieca dal fumo di quel rio veleno
che da’ soavi pampini distilla,
di quanto far bisogna instrutta a pieno
vassene dunque la malvagia Aurilla,
e dritto il passo move a quella parte,
lá dove sa che ritrovar può Marte.

14.Ritrovollo solingo, e come quella
che di prudenza a fren mai non soggiacque,
gli fe’ con lunga e lubrica favella
cose udir, che d’udir forte gli spiacque.
Narrò gli amori de la Dea piú bella,
e de’ progressi lor nulla gli tacque.
L’etá del Vago e la beltá dipinse,
e ’n piú discorsi il suo parlar distinse.