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CANTO DECIMOSESTO

Tanti non ha l’ambizioso augello
ne le penne rosate occhi dintorno,
quando quasi un Aprile o un Ciel novello,
di cento fior, di cento stelle adorno,
de l’ampia rota sua superbo e bello
apre il ricco teatro al novo giorno,
e ’l tesor vagheggiando, ond’ella è piena,
a se mcdesmo è spettatore e scena:

quanti pien di vaghezza e di baldanza
il Garzonetto intorno a sé n’accolse,

10 qual mentre a l’altar, che la sembianza
tenea di Vener bella, il piè rivolse,

di tutta quella nobile adunanza
usurpando le viste, i cor si tolse,
e tutti abbarbagliò di meraviglia
co’ lampi de le gemme, e de le ciglia.

De l’Invidia però l’occhio cerviero,

che ’n spiar l’altrui mende è Lince ed Argo,

di quello spazio investigando il vero

ch’ai bel fonte del riso è sponda e margo,

pur venne ad osservar che quel sentiero

che divide le labra è troppo largo,

e che ’nsomma la bocca, ov’entro è messo

11 tesoro d’Amor, pecca in eccesso.

Uccubo, a cui decrepita l’etate
quasi col mento avea congiunto il naso,
e sí le fauci rotte e sfabricate
che con tre denti soli era rimaso,
e le tempie e le ciglia avea pelate,
e calvo il capo, e crespo il volto e raso,
vacillante di polso e d’intelletto,
trovò questa calunnia al Giovinetto.