Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/243


canto quarto 241


163.Gran villania le parve aver commessa,
e di tanta follia forte le ’ncrebbe.
Spegner la luce perfida, e con essa
l’arrotato coltel celar vorrebbe.
Fu per celarlo in sen quasi a se stessa,
e senza dubbio alcun fatto l’avrebbe,
se da la man tremante il ferro acuto
non le fusse in quel punto al suol caduto.

164.Mentr’ella in atto tal si strugge e langue,
di toccar l’armi mie desio la spinge,
e con man palpitante e core essangue
le prende e tratta, e le tasteggia e stringe.
Tenta uno strale, e di rosato sangue
l’estremità del pollice si tinge.
Mirasi punto incautamente il dito,
e si sente in un punto il cor ferito.

165.Così si stava, e romper non ardiva
la mia quïete placida e tranquilla.
Ed ecco allor la liquefatta oliva
de l’aureo lucernier scoppia e sfavilla,
e vomitando da la fiamma viva
di fervido licor pungente stilla,
a l’improviso con tormento atroce
su l’ala destra l’omero mi coce.

166.Desto in un tratto io mi risento, e salto
fuor de la cuccia, ed ella a me s’apprende,
m’abbraccia i fianchi, e con vezzoso assalto
per vietarmi il partir pugna e contende.
M’afferra il piè fugace, io meco in alto
la traggo a volo, ed ella meco ascende.
Così pendente per l’aeree strade
mi segue e tiene, alfin mi lascia e cade.