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canto quarto 219


75.Lassa, di quel ch’io soffro, aspro martire,
vie maggiore e più grave è il mal ch’attendo.
Ch’io deggia entro il mio seno (oimè) nutrire
un mostro abominevole ed orrendo:
questo innanzi al morir mi fa morire,
questo morte sprezzar mi fa morendo.
Deh dammi pria ch’un tanto mal succeda,
Padre Nettuno, a le tue fere in preda.

76.Se provocò del Ciel l’ira severa
da me commesso alcun peccato immondo,
e da te deve uscir l’orrida Fera
che me divori e che distrugga il mondo,
ha ventura miglior ch’absorta io pèra
da questo ingordo pelago profondo.
Più tosto il ventre suo tomba mi sia,
e lavin l’acque tue la macchia mia.

77.Ma s’egli è ver, che pur a torto, e senza
colpa incolpata e condannata io mora,
e se Nume è lassù, che l’innocenza
curi, e prego devoto oda talora,
da lui cheggio pietà, spero clemenza;
e quando il reo destin sia fermo ancora,
venga (e ’l suo nero strale in me pur scocchi)
Morte per sempre a suggellar quest’occhi».

78.Più altro, ch’io ridir né so, né posso,
parlava la dolente al sordo lito,
ch’avria qual cor più perfido commosso,
anzi il porfido istesso intenerito.
Il cavo scoglio mormorar percosso
per gran pietà fu d’ognintorno udito;
e rispondendo in roche voci e basse
parea che de’ suoi casi il mar parlasse.