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canto terzo 183


123.Erbe felici, ch’a le mie ferute
dolor recate e refrigerio insieme,
ben che d’alto valor, quella virtute
che vive in voi, non è virtù di seme.
Vien da la bella man la mia salute,
da quella man che vi distilla e preme,
emula de’ begli occhi e del bel viso,
che sanandomi il corpo, ha il core ucciso.

124.O bella mano, ond’è che curar vuoi
la piaga del mio piè con tanto affetto?
Forse sol per poter farmene poi
mille più larghe e più profonde al petto?
Fors’è destin, che fuor ch’a’ colpi tuoi,
non dee corpo celeste esser soggetto.
La palma, che di me Morte non ebbe,
a te sol si concede, a te si debbe.

125.Ma che più tardo a disvelar quest’ombra,
che tiene il mio splendor di nube cinto?
S’or che le mie bellezze in parte adombra
magica benda, il mio aversario è vinto,
che fia quando ogni nebbia in tutto sgombra,
verrà che ceda al vero oggetto il finto? —
Disse, e squarciando le fallaci larve,
in propria effigie al Giovinetto apparve.

126.Qual Vergine talor semplice e pura
s’avien ch’astuta mano alzi e discopra
drappo, ch’alcuna in sé sacra figura
effigïata ad arte abbia di sopra,
ma secreta nasconda altra pittura,
di lascivo pennel piacevol opra,
tingendo il bel candor di grana fina,
da l’inganno confusa, i lumi inchina: