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canto terzo 163


43.Dal purpureo turcasso, il qual gran parte
de le canne pungenti in sé ricetta,
(parve caso improvviso, e fu bell’arte)
la punta uscì de la fatal saetta.
Punge il fianco a la madre, indi in disparte
timidetto e fugace il volo affretta.
In un punto medesmo il fier Garzone
ferille il core, ed additolle Adone.

44.Gira la vista a quel ch’Amor l’addita,
ché scorgerlo ben può, sì presso ei giace,
ed — Oimè — grida — oimè, ch’io son tradita,
figlio ingrato e crudel, figlio fallace!
Ahi qual sento nel cor dolce ferita?
Ahi qual ardor, che mi consuma e piace?
Qual beltà nova agli occhi miei si mostra?
A Dio Marte, a Dio Ciel, non son più vostra.

45.Pèra quell’arco tuo d’inganni pieno,
pèra, iniquo fanciul, quel crudo dardo.
Tu prole mia? no no, di questo seno
no che mai non nascesti, empio bastardo!
Né mi sovien tal foco e tal veleno
concetto aver, per cui languisco ed ardo.
Ti generò di Cerbero Megera,
o de l’oscuro Chao la Notte nera. —

46.Si svelle in questo dir con duolo e sdegno
lo stral, ch’è nel bel fianco ancor confitto,
e tra le penne e ’l ferro in mezo al legno
trova il nome d’Adon segnato e scritto.
Vòlto a la piaga poi l’occhio e l’ingegno,
vede profondamente il sen trafitto,
e sente per le vene a poco a poco
serpendo gir licenzïoso foco.