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canto terzo 161


35.dimmi, ond’avien che sol, pur come spenta
abbi la face, e la faretra vota,
contro Minerva è la tua man sì lenta
che non l’arda già mai, né la percota?
Che sol fra tanti un cor piaghe non senta,
che gli sia la tua fiamma in tutto ignota,
soffrir non posso; o le facelle e i dardi
depon’ per tutti, o lei ferisci ed ardi. —

36.Ed egli: — Oimè, costei di sì tremendo
sembiante arma la fronte, e sì severo,
che qualor per ferirla io l’arco tendo
temo l’aspetto suo virile e fiero.
Poi del grand’elmo ad or ad or scotendo
il minaccioso ed orrido cimiero,
di sì fatto terror suole ingombrarmi
ch’a la stupida man fa cader l’armi. —

37.Ed ella a lui: — Pur Marte era più molto
feroce e formidabile di questa;
da’ tuoi lacci però non n’andò sciolto,
malgrado ancor de la terribil cresta. —
Ed egli a lei: — Marte il rigor del volto
placa sovente, e mi fa gioco e festa,
m’invita ai vezzi, ad abbracciarmi corre:
l’altra sempre mi scaccia, e sempre aborre.

38.Talor, ch’osai d’avicinarmi alquanto,
giurò per quel Signor che regge il mondo,
o con l’asta o col piè, rotto ed infranto
precipitarmi a l’Herebo profondo.
D’angui chiomato ha poi nel petto ahi quanto
squallido in vista un teschio e furibondo,
del cui ciglio uscir suol tanto spavento
che ’n mirarlo agghiacciar tutto mi sento. —