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126 il palagio d’amore


95.Non son, non son qual credi: in me vedere
di Vener forse, o di Giunon pensasti
lusinghe false ed apparenze altere,
i risi e i vezzi, e le superbie e i fasti?
Cose tu vedi essenzïali e vere,
vedi Minerva, e tanto sol ti basti:
senza cui nulla val regno o ricchezza,
fuor del cui bel difforme è la bellezza.

96.Virtù son io, di cui non altro mai
vide uom mortal ch’una figura, un’orma.
A te però con disvelati rai
ne rappresento la corporea forma;
da cui (se saggio sei) prender potrai
de la vera beltà la vera norma,
e conoscer quaggiù fuor d’ogni nebbia
quel che seguir, quel ch’adorar si debbia.

97.Forse, mentre tu miri, ed io ragiono,
per troppo meritar mi stimi indegna,
e la vergogna di sì picciol dono
ti fa parer che poco a me convegna.
Ma io mi scorderò di quel che sono,
sol che la palma di tua mano ottegna.
Pur ch’ella oggi da te mi sia concessa,
per amor tuo sconoscerò me stessa».

98.Da la virtù di quel parlar ferito
Paride parer cangia, e pensier muta:
e dal presente oggetto instupidito
la memoria de l’altro ha già perduta.
«Diva» risponde, «il merito infinito
di cotanta beltà non più veduta
dona al mio cieco ingegno occhi a bastanza
da poter ammirar vostra sembianza.