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Un quarto d’ora dopo, un urlo lacerante seguito da un rumore di pietrame crollante e da pesanti tonfi.

— Diiio! — grida sussultando Luciani — Hai sentito? Quell’urlo è di Arhiman. Hanno buttato nell’abisso la sua vivente cassaforte!

Languidamente svegliandosi, Eugenia precisa così l’emozione dei suoi nervi:

— M’infischio del barone Arhiman e dei forti francesi o spagnoli in agguato. Vuoi una prova di ciò che ti dico, amore?

Come una belva snella balza fuor dalle coltri, accende tutte le luci della camera riscintillanti nelle profondità abbagliate dei suoi specchi solari e marini. Ridendo torna a letto e, carponi, arcuando la groppa, punta le sue tonde semisfere nude davanti alla finestra spalancata contro la notte più che mai cementata dal silenzio severo dei forti.

Fu breve, però, quel silenzio. Lo forava già la punta di un gemito che poteva essere quello del barone morituro ma non era. Aumentò, divenne animalesco quel gemito. Poi, meccanico, feroce, minacciosissimo, e finalmente scoppiò in granata tuonante, tanto da frangere le fulgenti bottiglie colorate del Bar per meglio stringere il diabolico nodo d’un cocktail ideale.

Cocktail inebriante di liquori ambiziosi che sognavano forse di anticipare il futuro simulando in piena notte alpestre, la più bella aurora di guerra.


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