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gabbiani femminili fra una schiuma di ventagli. Caldo crescente. Interno di enorme conchiglia invasa per metà dal sole di agosto. Non c’era più posto, ma la gente continuava ad entrare. Compenetrazione di gomiti nei fianchi. Barbe rosse, dorate, quadrate, a pizzo sfioravano globi di poppe colorate come cirri al tramonto. Lunghi capelli grigiastri di vecchia decadente fra le scapole feroci di una scheletrita pianista, bandeaux neri con una bocca forata dal rosso. Miscela di fiati. Ansare. Sarà molto interessante! Eccezionale! Il ritorno alla terra, poema drammatico... Non c’è palcoscenico! Una cosa assolutamente nuova! La divina Lettecot Livy sarà nuda! O quasi! Vestita di foglie!... I versi sono suoi! Nel centro vi sarà della terra, della vera terra!

La folla era infatti disposta, assiepatissima, tutta in cerchio, come in un’arena. Silenzio! Silenzio! A stento inoculati, la mia amica ed io, formavamo una fusione unica. Lo spettacolo incominciava. Non si vedeva nulla. Dei pezzi diversi schizzavano fuori dal brusio che non poteva cessare, data la ressa. Ad un tratto, tra il fogliame umano, vidi la celebre Livy rizzarsi tutta verde, e spargere intorno a sè col grasso braccio nudo, della terra nera. Poi, riempirsene la bocca. E finalmente gridare con irruenza drammaticissima: «Bisogna mangiare la terra! Nutrirsi, nutrirsi, nutrirsi di terra!... per non morire!»

Intanto una finestra si apriva al primo piano davanti a noi ed apparve una vasta portinaia, una di quelle tipiche portinaie parigine che presero tanta parte nelle battaglie tra inquilini Dreyfusisti

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