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Conobbi così la signora Julie de Mercour che incontravo dappertutto. Biondissima, fragile, pallida, un ninnolo febbrile con dei subitanei languori nella voce e negli occhi come se si fosse tuffata nell’acqua calda di un ricordo erotico. La desiderai acutamente e l’inseguii. Le nostre velocità e le nostre onnipresenze erano parallele. Un giorno in un ascensore, presa da subitanea confidenza, mi parlò di male cardiaco e mi fece premere colla mano un seno bianchissimo scosso da un cuore troppo disordinato. Moglie di un architetto illustre che non conobbi mai, era smaniosa d’essere nominata in tutte le note mondane dei giornali, ma aveva un’altra mania che io volli esplorare.
Fu felice di presentarmi ad un industriale miliardario, nell’occasione di una festa che doveva sorpassare tutto ciò che si era inventato di più favolosamente strano e piccante. Vi convergevano tutte le limousines aristocratiche scoppianti di luccicori, fuga sferica di riflessi, esplosione molle di stoffe rosa neve fra i cristalli, ebano, lacca rossa, turchesi, tenerissimi gialli, ottone dei fanali, gridio schizzante di strilloni sull’asfalto pieno di raggi veloci: Krubree-bree-bree, Kru-bree-bree. Entriamo insieme.
Vasto cortile quadrato. Tre pareti tappezzate di bianco e verde; quella di fondo, evidentemente di un’altra casa e di un altro proprietario, trasudava curiosi a tutte le finestre. Crescente polifonia di voci. Tutti i profumi corrotti dagli odori di troppi corpi femminili. Ambizione, irritazione di quattrocento cappelli, piume, garze, veli in rissa per emergere. Naufragio di gesti nudi. Palpitazione di
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