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Durante i tre anni che precedettero la conflagrazione generale, Parigi, che aveva riassunto e perfezionato in sè tutte le eleganze, tutte le raffinatezze, tutti i cerebralismi e tutte le esasperazioni erotiche, volle realmente spaccarsi l’enorme fronte luminosa contro la muraglia dell’impossibile. Tutti i divertimenti, tutte le bizzarrie, tutti i capricci, tutti gli spettacoli furono realizzati, esauriti, vuotati. La manìa letteraria femminile che era successa alla manìa del bridge, giunse a delle forme snobistiche assolutamente pazzesche e cretine. Durante un pomeriggio in un salotto politico consideratissimo fui costretto ad ascoltare venti declamatrici diverse. Una dama sessantenne leggeva una Notte di De Musset. Occhialetto tremante fra i nodi delle vecchie dita. Primavera stonata di una toilette rosalilla sul corporuderoattaccapanniombrello. Lingua stanca e bavosa fra i versi roventi. Disattenzione di tutti i cappelli piumati che bisbigliavano i loro affari senza preoccuparsi della declamatrice. Poi, un barbone biondo, pettinatissimo, in stiffelius, notaio o direttore di banca, cadenzava per dieci minuti degli alessandrini col gesto sempre eguale di un seminatore. Poi una signorina svenevole, piena di smorfie cinesi, parlava con una voce da passero, di una volontà che faceva rima con carità. Compassione generale. Nessuno ascoltava. Dalle tre fino alle otto e mezzo di sera. Ogni tanto interruzione: — Bello! magnifico! interessante! — Piccolo battere febbrile dei ventagli richiusi contro gli anelli delle mani ridipinte. Mormorio di compiacimento falso. Gorgoglio di voci. Trotto di cretinerie banalissime. E si riprendeva: a non ascoltare.


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