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Ma una torma di poliziotti piomba sulla ressa. Ingiurie, legnate, legnate, capitomboli, gomitoli umani. Le donne sputano, graffiano, ma il negro è liberato. Intanto la città gonfia il suo rumorismo minaccioso. Tutti sono desti, in piedi, fuori della porta sotto l’enorme lima bianca che pende sulle fette bianche delle strade e sulle ombre aguzze lunghissime. Le casette succose e goccianti di liquore lunare nei loro grandi gusci di fogliami hanno qua e là ferite scintillanti che stringono scintillanti lame d’acciaio lunare.
Colonne di popolo convergono alla prigione dove i poliziotti hanno chiuso Kam-Rim. Passo ritmato dell’odio.
— Kill him! Kill him!
Nessuno fermerà la marea dei bianchi nella luce affilata della luna che comanda il massacro. La porta della prigione è sfondata. Kam-Rim è trascinato fuori con una nuova corda al collo. Lungo corteo mugolante che ribolle, corre, si ferma, discute, sulla morte più atroce. Quella più esemplare più appagante nelle bocche spalancate dei massacratori. Un italiano furbo e simbolista grida:
— Sia impiccato sul palo di questa lampada elettrica, e muoia così nel bianco, il negraccio, sotto la luna bianca!
Poi scimmiescamente s’arrampica sul palo; portano una corda e una carrucola.
Nell’urlo simultaneo della folla delirante il negro è sollevato. Penzola. Oscilla. Dà tre calci alla morte.
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