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A sei anni fui più volte sgridato severamente, perchè sorpreso nell’atto di liquidare dal balcone i passanti.
Non passavano, anzi... sostavano i solenni mercanti arabi, prolungando saluti cerimoniosi, con piegamenti di schiena ad arco, sotto i loro turbanti multicolori, per contrattare avidamente biancheria parigina e cassette di frutta, coi sensali ebrei e i cammellieri.
La casa di mio padre ad Alessandria d’Egitto apriva le sue finestre da una parte su una strada popolosa e dall’altra su un vasto recinto folto di palme, morbidi ventagli sulle azzurre risate schiumose del mare africano.
Vivevo le mie giornate su un balconcino di legno in una sognante intimità con le grasse tortore, che, appollaiate fra i regimi di datteri a due metri da me, tubavano melodiosamente, forse per preparare nelle mie orecchie la mia futura sensibilità rumoristica.
Quando i mercanti disturbavano col loro vocìo le mie tortore amiche, io rubinettavo giù il mio disprezzo infantile.
Nel collegio dei Gesuiti francesi Saint Francis Xavier, per molto’ tempo non imparai altro che a giocare freneticamente bene al foot-ball. Accadde spesse volte a mia madre, terrorizzata, di vedermi ritornare a casa pesto e insanguinato da quello sport furibondo.
Avevo quattordici anni, quando il padre Bufferne, mio professore di humanité, dichiarò un giorno solennemente, in classe, che una mia descrizione di aurora sorpassava in bellezza tutti
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