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fina colla beatitudine, essa è il succulento veleno che rovina il fegato per la più grande gioia dello stomaco. Noi non siamo di coloro che la disprezzano, e anche l’amiamo... ma ne diffidiamo sopratutto se preparata alla maniera della cucina romana, cioè cruda. Perchè la sua digestione è una ruminazione insidiosa, lenta, invitante alla molle fantasticheria, ai vuoti sogni, alla rinuncia scettica, al ritmo untuoso conciliante dei tardigradi.

La si innaffia sopratutto di Salerno o di Frascati per comprendere la lentezza del popolino e dei prelati romani o napoletani, che sono anche l’origine di quel sentimentalismo languido, di quella ironia serena, di quella indifferenza amabile, di quella saggezza trascendentale, per cui Roma eterna, da Orazio a Panzini, sfida la lunghezza dei tempi.

«Si tratta oggi di rifare l’uomo italiano, poiché a che serve di fargli levare il braccio nel saluto romano, se può riposarlo senza sforzo sul suo grosso ventre? L’uomo moderno deve avere il ventre piatto, sotto il sole, per avere dei pensieri chiari, una pronta decisione, e un’azione energica: guardate il negro, guardate l’arabo. Il paradosso gastronomico di Marinetti mira all'educazione morale, come i suoi paradossi all'educazione estetica: bisogna scuotere la materia per risvegliare lo spirito.

«Un anno fa dicevamo che Marinetti castigava


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