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cantile e il misoenismo che riducono la musica italiana ad una forma unica e quasi invariabile di melodramma volgare, da cui risulta l’assoluta inferiorità nostra di fronte all’evoluzione futurista della musica negli altri paesi.

In Germania infatti, dopo l’èra gloriosa e rivoluzionaria dominata dal genio sublime di Wagner, Riccardo Strauss eleva il barocchismo della strumentazione fin quasi a forma vitale d’arte, e sebbene non possa nascondere, con maniere armoniche ed acustiche abili, complicate ed appariscenti, l’aridità, il mercantilismo e la banalità dell’anima sua, nondimeno si sforza di combattere e di superare il passato con un ingegno innovatore.

In Francia, Claudio Debussy, artista profondamente soggettivo, letterato più che musicista, nuota in un lago diafano e tranquillo di armonie tenui, delicate, azzurre e constantemente trasparenti. Col simbolismo strumentale e con una polifonia monotona di sensazioni armoniche sentite attraverso una scala di toni interi — sistema nuovo, ma sempre sistema, e, di consegueza, volontaria limitazione — egli non giunge sempre a coprire la scarsità di valore della sua tematica e ritmica unilaterali e la mancanza quasi assoluta di svolgimento ideologico.

Questo svolgimento consiste per lui nella primitiva e infantile ripetizione periodica di un tema breve e povero o di un andamento ritmico monotono e vago.

Avendo ricorso, nelle sue formole operistiche ai concetti stantii della Camerata fiorentina, che nel 1600 dava nascita al melodramma, non è ancora pervenuto a riformare completamente l’arte melodrammatica del suo paese.

Nondimeno, più d’ogni altro egli combatte gagliardamente il passato e in molti punti lo supera. Idealmente più forte di lui, ma musicalmente inferiore è G. Charpentier.

In Inghilterra, Edoardo Elgar, coll’animo di ampliare le forme sinfoniche classiche, tentando maniere di svolgimento tematico più ricche e multiformi variazioni di uno stesso soggetto, e cercando non nella