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dietro, e proprio dietro nella schiena essa gli pose il tesoro della sua giocondità. Un poeta gobbo che continuasse per tutta la vita a cantare dolorosamente non potrebbe essere mai e poi mai un uomo profondo, ma il più superficiale di questa terra. Egli si sarebbe fermato a piagnucolare alla superficie della sua gobba come un fanciullo alla parola «bao» dopo averci rubato lo scrigno del suo tesoro dorsale per non essere stato capace di penetrarlo.
MAGGIOR QUANTITÀ DI RISO UN UOMO RIUSCIRÀ A SCOPRIRE DENTRO IL DOLORE, PIÙ EGLI SARÀ UN UOMO PROFONDO.
Non si può intimamente ridere se non dopo aver fatto un lavoro di scavo nel dolore umano. L’uomo che ride del riso stesso, o servendosi della gioia già scavata da altri, o è un poltrone, o un impotente, e ride, come se uno gli facesse il solletico sotto la gola, un riso meccanico. È come se uno credesse di sfamarsi guardando mangiare. Così furono fino ad ora le arti, il teatro, la letteratura: galleggiare sul dolore umano, servirsi della gioia già scavata da un altro, facendocela vedere già fuori senza insegnarci il modo di scuoprirla.
IL SOLILOQUIO DI AMLETO, LA GELOSIA DI OTELLO, LA PAZZIA DI LEAR, LE FURIE DI ORESTE, LA FINE DI MARGHERITA GAUTIER, I GEMITI DI OSVALDO, VEDUTI ED ASCOLTATI DA UN PUBBLICO INTELLIGENTE DEVONO SUSCITARE LE PIÙ CLAMOROSE RISATE.
Fissate bene in viso la morte, ed essa vi fornirà tanto da ridere per tutta la vita. IO AFFERMO ESSERE NELL’UOMO CHE PIANGE, NELL’UOMO CHE MUORE, LE MASSIME SORGENTI DELLA GIOIA UMANA.
BISOGNA EDUCARE AL RISO I NOSTRI FIGLI, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente non appena ne sentano la necessità, all’abitudine di approfondire tutti i fantasmi, tutte le apparenze funebri e dolorose della loro infanzia, alla capacità di servirsene per la loro gioia.