Pagina:Manzoni.djvu/238

236 i promessi sposi.

egli si serve talora di similitudini volgari per dichiarare meglio certi pensieri che, alla prima, non appaiono nella loro piena evidenza. Sotto i grossi panni del villano di Lecco si trova sempre il cervello sottile del Manzoni. Se la fine ironia che vi è dentro non si coglie, il racconto può talora riuscire insipido, e le riflessioni che lo accompagnano sembrare superflue. Quando l’Autore intraprende, per esempio, a descriverci quello che sia propriamente un carteggio fra contadini, i quali sogliono ricorrere ad un letterato della loro condizione per far sapere i loro negozii ai lontani, osserva: «al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe, qualche volta gli accade di dire tutt’altro; accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa;» questa specie di prima punta maliziosa c’incomincia ad avvertire di che veramente si tratta; e il fine della descrizione riesce a persuadercene del tutto: «Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto dello stesso calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere: perchè l’interessato, fondandosi sulla cognizione dei fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è