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220 | i promessi sposi. |
dell’opinione non molto comune, o almeno poco ascoltata, che i libri si stampassero per venir letti; e leggeva di tutto; di storia e di poesia, di teologia e di filosofia, di agronomia e di giurisprudenza; e di tutto facea tesoro nella sua memoria prodigiosa, e succo di vera sapienza più ancora che di semplice dottrina. Egli discorreva volentieri coi libri che leggeva come se fossero persone vive, ed entrava volentieri con essi in segreta e minuta polemica, quando gli pareva che sragionassero. Altre volte egli se ne lasciava inspirare, e questo fu appunto il caso che gli dovette occorrere prima di scrivere i Promessi Sposi.
Quando il Manzoni ebbe letto in uno Studio biografico del tedesco Sauer, per quali ragioni artistiche, politiche, religiose, egli si fosse condotto a scrivere i Promessi Sposi, accompagnando le parole con un arguto sorriso, sclamò: Cospetto! questo signore deve essere un gran dotto, perchè di me e delle cose mie ne sa assai più che non ne sappia io. E, dopo aver dichiarato che di quelle intenzioni sotterranee, sintetiche, subbiettive o che so io egli non ne avea avute mai, raccontò per la centesima volta ad uno de’ suoi amici presenti come l’idea del romanzo gli fosse nata a Brusuglio, dove egli avea per qualche tempo creduto cosa prudente il ritirarsi con Tommaso Grossi e con la famiglia, quando a Milano erano incominciati gli arresti de’ Carbonari. Egli s’era portato in campagna due libri: la Storia milanese del Ripamonti, scritta, com’è noto, in latino, ed un’opera del Gioia: Economia e Statistica. Il Ripamonti gli suggerì l’episodio che, fin dal principio, fissò in parti-