Balbo in questi termini: «Un tanto onore sarebbe caramente pagato, se io non lo potessi ottenere che col titolo di Accademico straniero; standomi più a cuore l’esser compatriotta di Lei e degli altri uomini insigni, di cui codesta Accademia si vanta, che d’esser loro collega; chè, se questo è un effetto della degnazione loro, quello è un dono di Dio, che mi ha fatto nascere in questa Italia, che è superba di chiamarli suoi.» L’ultime sue parole d’affetto furono pure per la città di Torino. Egli le scrisse nell’anno 1873, poco prima di morire, e suonano così: «Trista condizione di cose, in cui anche gli uomini di alta mente e amici della patria non potevano far altro che disperare o sognare.» Vittorio Emanuele gli pare: «Un Re che al coraggio e alla costanza della sua stirpe univa un sentimento per l’Italia, che in questo caso non consentiremmo di chiamare ambizione, perchè la parte di vanità e d’interesse personale sottintesa in un tale vocabolo scompare nella grandezza e nella nobiltà del fine.» Riconosce l’antica forza di resistenza opposta allo straniero invasore dall’esercito del piccolo Piemonte, con una felice similitudine: «L’esercito piemontese aveva saputo tener addietro, da quella parte, per ben tre anni, il novo invasore, come quel valente ragazzo olandese aveva opposta all’acqua che stava per prorompere da un punto dell’argine la sua piccola, ma tenace schiena, aspettando soccorso.» Riconosce l’importanza del soccorso che ci diedero i Francesi nel 1859; ma, nello stesso tempo, osserva che l’Italia si è pure un poco aiutata da sè: «La vita d’una nazione non può essere un dono d’altri. È