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per spiccare più temerarii i voli nel mondo della volontà. Nelle labbra degli Inglesi vi è tutta la loro ostinazione, la loro ferocia di volontà, la loro inesauribile e instancabile attività.

E quel giovane bello e appassionato aveva di quelle labbra. Gioia più pura non aveva mai veduto dipingersi in volto più bello. Quella gioia, che sembrava una ineffabile speranza, doveva essere pur grande, perchè quell’uomo che non poteva essere egoista, in mezzo a tanto pianto e a tante scene di dolore che doveva aver veduto pochi momenti prima, non nascondeva punto la sua beatitudine.

Appoggiato mollemente col braccio destro ad uno dei cordami dell’antenna, pareva baloccarsi colla ondulazione lenta della nave, e fuori di quel punto di appoggio egli era in cielo, era tutto sollevato fuor di sè stesso da una gioia senza nome. Gli occhi eran larghi, aperti fin dove l’uomo può aprirli: e il volto e il collo e il petto parevano gonfiarsi sotto l’impulso interno di una forza di espansione. Quell’uomo divorava l’Oceano e pareva vedervi il suo paradiso; e la sua gioia lo faceva, sospirare lungamente, profondamente, assaporando il salso aroma della brezza marina. Per certo quel giovane inglese non aveva da un pezzo goduto tanto, nè a quel modo.

Quando venne l’ora del pranzo, distratto dalle cure dell’acconciarmi nella mia cabina, non sentii il richiamo della campanella e giunsi a tavola dopo tutti gli altri. Corrucciato di non poter sciegliermi i miei vicini, dovetti pigliarmi l’unico posto che rimaneva. Caso strano! Quel posto non era ad una delle estremità, ma era nel mezzo della mensa; e due uomini respinti da una sùbita antipatia, dopo esser venuti vicini, avevan lasciato una sedia vuota fra l’uno e l’altro.

Appena seduto volli scoprire la causa di quel fenomeno di elettricità morale e guardava i miei due vicini. Tino di essi (e ne fui felicissimo) era il mio inglese di prora, l’altro era uno di quegli uomini che si conoscono di dentro e di fuori dopo un’ora; ed io dopo