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di marco tullio cicerone 295

con l’uso: e la sazietà della vita ferma il punto immutabile della morte.


XXI. — (Opinione di alcuni sommi pagani sull’immortalità dell’anima.) — Non troverei fuori di luogo che da voi venissi dimandato cosa ne pensi della morte, io, la quale avendo così vicina, dovrei guardarla in viso meglio di chicchessia.

E sono per credere, Lelio e Scipione miei, che gli illustri vostri genitori vivono; ma un’altra vita, quella sola che vera si può appellare.

Finchè restiamo vincolati da questi corporei legami, siamo schiavi delle passioni e cieco strumento della necessità.

È l’anima d’origine celeste, scesa dalle superne sfere ad abitare la materia, asilo poco degno dell’indole sua eterna e sublime. Senza dubbio quell’incommensurabile soffio dagli Dei immortali veniva inspirato negli umani petti a guardia del mondo, affinchè l’uomo, l’ordine dei celesti corpi contemplando, lo imitasse con pari costanza ed armonia nella vita. Nè questa opinione s’ingenerò in me mercè la sola forza della discussione e la guida della ragione, ma altresì dietro l’autorità e la mente superiore di filosofi eminenti.

È fama che Pitagora e i suoi proseliti di recente stabiliti in Italia (dal che a quella scuola ne venne il nome di italiana) non dubitassero menomamente che l’anima fosse un’emanazione della Divinità. Ed all’appoggio di tale loro dottrina adducevano i ragionamenti che sull’immortalità dell’anima, aveva tenuto Socrate nell’ultime ore della vita, quel Socrate che dall’Oracolo delfico era stato giudicato sapientissimo.

Ma che vale il dire? Sono convinto e in me