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di marco tullio cicerone 281

di sostanze fermentatrici accoglie lo sparso seme che asconde nel seno delle infrante glebe (da cui l’arte poscia inventava l’erpicazione). Il seme dagli ardori solari riscaldato e reso fecondo, s’inturgida, e ne spunta fuori una verde, sottile erbetta, le tenere fibre della quale traggono nutrimento dalle di lei radici; a misura che invigorisce s’innalza, e rizzata sul nodoso stelo, quasi pudibonda, fa velo ai semi nei calici non per anco dischiusi. Questi apronsi allo spiccare de’ grani, che simmetricamente distribuiti, alla voracità dei piccoli uccelli trovano scudo nei gusci delle spiche.

E se mi trattenessi a parlarvi intorno alla piantagione, al nascimento, allo sviluppo della vite, ciò farei non per altro, che non sono mai pago di far conoscere la pace e i placidi passatempi di questa mia senile età. Ma troppo lungo sarebbe il discorrere della forza vitale d’ogni produzione terrestre, la quale dal granello del fico e dall’acino della vite fino ai minutissimi semi di tutti i vegetabili, infinite propagini e rami fa nascere. Chi può non ammirare e dilettarsi alla vista delle piante di radice vigorosa, degli arboscelli, de’ tralci, degli allievi innestati? La vite per indole propria flessibilissima, che priva di sostegni, giace prostrata al suolo, meravigliosamente si drizza sui propri capreoli, i quali a guisa di mano afferrano tutto ciò che sta loro vicino. Guidato dall’arte sua, l’agricoltore le tronca con il ferro i tralci parassiti che serpeggianti e molteplici spinge per ogni lato, onde impedire che essa, per lussureggianti rami, inselvatichisca e prodigati facciansi insipidi i di lei succhi. All’aprire della primavera spunta la gemma sulle articolazioni