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Riaperse il manoscritto, lo rilesse per la terza volta. Poi lo depose e riprese la ciocca di capelli. Le sue mani si movevano lentamente, non avevan più nulla di nervoso. La fisonomia era marmorea: non v’erano scritte nè incredulità, nè fede, nè pietà, nè paura, nè meraviglia.

Un passo pesante nel corridoio. Marina si trasformò. I suoi occhi scintillarono, il sangue le corse al viso; chiuse con impeto la ribalta dello stipo e si slanciò alla porta.

Era Fanny, che aveva un passo da corazziere.

— Vattene — disse Marina.

— Ah, Signore, che furia, cos’è accaduto?

— Nulla, non ho bisogno di te stasera, vattene a letto — ripetè Marina più ricomposta nella voce e nel viso. Fanny se ne andò.

Marina stette in ascolto de’ suoi passi finchè la udì scendere le scale. Allora tornò allo stipo.

Esitò a riaprirlo, ne considerò i geroglifici, le figure enigmatiche d’avorio intarsiato nell’ebano, che avevano in quel momento per lei la espressione funebre di spettri saliti a galla in una corrente nera infernale. Si decise e riabbassò la ribalta.

Trasalì; lo stipo era stato chiuso in furia e lo specchietto era andato in pezzi secondo la volontà di Cecilia. Rilesse l’ultima pagina del manoscritto, si sciolse i capelli, ne tolse in mano una treccia e l’accostò alla ciocca di Cecilia; i vivi e i morti non si rassomigliavano affatto.

Prese il guanto. Come n’era fredda la pelle! Metteva i brividi. No, neppure il guanto andava bene: era troppo piccolo.

Marina ripose nel segreto il manoscritto, il libro, il guanto, i capelli, la cornice con i pezzi dello specchietto e premette forte sull’uncino. La molla scattò, il piano risalì a posto. Ciò fatto, cadde ginocchioni, appoggiò le braccia sulla ribalta dello stipo e si nascose il viso. La candela che ardeva sopra di lei e le illuminava di